di Francesca Lizzi

Cammino nel corridoio del mio Luogo di Studio (LDS). Cammino? Magari, stampello, voce del verbo stampellare che forse non esiste in italiano ma esiste nella realtà. Forse potrei scrivere una lettera all’Accademia della Crusca per far inserire nelle nuove edizioni l’aggettivo stampelloso. Comunque. Stampello nell’LDS, a volte perché voglio un caffè, devo andare in bagno o devo parlare con qualcuno.

Mi succede spesso che appena mi siedo, lo stimolo di andare in bagno si amplifica al punto che non posso procrastinare il mio appuntamento col cesso. Così mi alzo di nuovo, combatto il bruciore delle mani e l’indolenzimento delle spalle per soddisfare il mio bisogno. Ogni volta che mi alzo il primo pensiero va a come riuscire ad accorpare più azioni possibile minimizzando il percorso da stampellare. Mi è successo di dover stampare delle cose.

Dalla mia sedia, invio il file alla stampante e devo alzarmi per andarlo a prendere. Finchè non mi spunterà una terza mano, e chissà che nel tempo in cui dovrò spostarmi con le mani l’evoluzione non farà in tempo a farmela spuntare, trasportare oggetti è una cosa abbastanza complicata.

Quindi mi alzo, stampello, arrivo alla stampante e l’idea migliore che mi viene è mettermi i fogli in bocca e tornare indietro.

Nonostante il tragitto sia particolarmente breve, incontro diverse persone. Tra queste c’è quello che chiameremo il Prof Diabete (PD). Lo chiamiamo così perché uno dei suoi esami è talmente complesso da passare che molti di noi hanno sviluppato non solo ansie da prestazione sfociate in patologie psicotiche o in attacchi di panico multipli, ma qualcuno per lo stress ha anche sviluppato il diabete a cui era geneticamente predisposto (no, non sto scherzando). Insomma, cammino con i fogli in bocca e incontro gente.
Non che non apprezzi il fatto che le persone sappiano farsi i fatti propri, tuttavia sono rimasta basita dal fatto che nessuno abbia pensato che forse una ragazza con le stampelle, sudata, con dei fogli in bocca potesse avere bisogno di una mano. Nessuno prova ad aiutarmi o a chiedere se avessi bisogno di aiuto.

Una volta in uno di questi trasporti mi sono anche caduti i fogli dalla bocca perché devo controllare dove poggiano i gommini di entrambe le stampelle, contrarre i muscoli delle spalle e gli addominali, sforzare i muscoli della gamba che non appoggio per tenerla sollevata e a volte mi dimentico di tenere chiusa la bocca. E i fogli cadono. Ancora una volta, nessuno che provi ad aiutarmi.

Qualche giorno dopo l’episodio, un mio amico mi presta la sua carrozzina. Vale la pena raccontarvi come mi è stata portata. Il mio amico, che chiameremo Quello che Capisce Davvero (QCD), mi manda un messaggio in cui mi dice che mi ha lasciato la sua carrozzina a casa. Nota: lui ne ha bisogno davvero, non ha, come me, l’alternativa di utilizzare un paio di stampelle. Non posso sprecare questo suo dono. Allora mi metto d’accordo con la sua coinquilina, che è una delle mie più care amiche che in quel giorno preciso festeggiava il suo compleanno, per farmi portare la carrozzina nell’LDS.
Decido che sarebbe davvero troppo farmela portare direttamente alla mia scrivania, così scendo e l’aspetto fuori. In quel preciso momento il cielo decide che deve piovere. Ma non una pioggerellina carina, con piccole goccioline brillanti e un sole latente che sembra voler rifare capolino a breve. Praticamente si manifesta una bufera, con vento e fulmini.
Decido quindi di attraversare la stradina di fronte all’LDS per ripararmi sotto una tettoia. Mi bagno completamente. Attendo in piedi sotto la tettoia cercando inutilmente di evitare gli schizzi che quel simpaticone del vento prova a buttarmi addosso, come se stessimo giocando come quindicenni nel mare. Continuo a bagnarmi, si bagnano le stampelle. Arriva la mia amica, che come in un poema cavalleresco, compie la sua missione affrontando la tempesta per portarmi la carrozzina.

Rientriamo nell’LDS, e mi bagno ancora. Insomma sono abbastanza zuppa. Appena entriamo, le stampelle scivolano e inizio a piangere. Ringrazio la mia amica e le faccio gli auguri per il suo compleanno, in una scena che deve essere sembrata abbastanza comica. Le chiedo se mi accompagna sopra perché non ho confidenza con quell’oggetto e ho paura di non farcela. Mi accompagna e va via.

Così, nel mio ufficio, con questo nuovo incredibile strumento decido di partire per prendermi qualcosa da mangiare alle macchinette. Mentre vado, incontro un professore, che chiameremo Prof Lab (PL). PL mi vede da mesi in quei corridoi ma non ha mai pensato di salutarmi. Negli ultimi giorni, devo dire, che ho avvertito il suo sguardo quasi paterno posarsi su di me mentre cerco di muovermi lungo i corridoi.

Quando mi vede sulla carrozzina, inizia a ridere e mi dice “Grande! Così puoi muoverti molto meglio e fare molta meno fatica!”, con grande entusiasmo. E penso “Si, daje! Con questo oggetto posso andare in bagno tutte le volte che voglio!”. Arrivo alle macchinette e incontro il Prof Diabete (PD – coincidenze?). PD, così reticente nel volermi dare una mano in un mio evidente momento di difficoltà nel trasporto fogli, mi dice “Signorina, non le pare esagerato?”. 

Ora, voi direte. Ma guarda sto coglione! Devo dire, però, che la sensazione che qualcuno pensasse che stessi esagerando sedendomi su una carrozzina ce l’ho avuta anche in altre occasioni. Gli rispondo “Sei mesi di stampelle non sono semplici da affrontare”. Un altro che era lì gli dice “Ehi PD, ha ragione, sono faticosi sei mesi di stampelle”. Cerco di prendere la mia merendina e di fuggire il più velocemente possibile.

Da questa storia, ho capito una cosa. Le stampelle sono un oggetto socialmente accettabile, forse perché indicano una situazione di temporanea disabilità che, una volta finita, permette di rientrare nella vita sociale come soggetto sano. La carrozzina invece è lo stigma dell’invalidità permanente, di un soggetto mai recuperabile e sempre in debito con una società che si vanta di saperlo aiutare ma che dei suoi bisogni capisce poco o niente. E questo è normale quando la struttura sociale in cui viviamo nasce dal punto di vista dell’abilità e non da quello della disabilità. Il disabile deve nascondersi, non farsi vedere. Magari gli diamo pure una pensione purché non rompa troppo il cazzo. Gli facciamo dei parcheggi adibiti a lui, sempre che lo stronzo col SUV non decida di parcheggiarci sopra senza permesso. Che se chiami la municipale per rimuovere l’invadente auto, puoi pure aspettare ore e ci sta pure che alla fine lo stronzo sei tu perché bastava entrare nel bar lì vicino e chiedere di chi era. Il disabile deve sempre dimostrare di esserlo davvero. Se prima porti le stampelle e poi, vuoi per i calli alle mani, il dolore alle spalle, la fatica di trascinarsi sulle braccia, quando ti siedi su una carrozzina, eh, lo devi dichiarare che non sei disabile permanente sennò stai ingannando il mondo che ti circonda.

Come se non fosse abbastanza dover portare le stampelle per mesi, come se fosse normale esprimere giudizi sulle necessità degli altri non solo senza sapere quali siano, ma dopo averle dolosamente ignorate pochi giorni prima. Quando feci la visita medica in cui mi dissero che la terapia era non poggiare più il piede, sapevo a cosa andavo incontro e iniziai a piangere. Il medico si sedette affianco a me e mi disse “portare le stampelle non è una cosa di cui vergognarsi, devi farlo per te, per guarire”. Li per lì pensai che non mi vergognavo di portare le stampelle, ma sarò sincera, davanti alle macchinette mi sono vergognata di stare seduta sulla carrozzina. E ho pensato al mio amico, Quello che Capisce Davvero, e mi sono vergognata ancora di più di essermi vergognata. E in questo turbine di vergogna, ho pensato che, nonostante la mia attuale condizione, dovevo stare attenta a non fare altre cose vergognose. Tipo dire a QCD cose come “No non puoi capire che significa non camminare” – si, l’ho fatto- senza pensare al fatto che lui è Quello che Capisce Davvero. Non esco di casa da 4 giorni ma ho fatto richiesta per avere una carrozzina in ufficio. E ad ora una delle cose che più mi genera rabbia, è non aver mandato a fanculo il PD senza dargli spiegazioni sul perché sedevo su una carrozzina. Perché lui non me le ha chieste. Lui non le voleva. Lui voleva solo farmi sentire inadeguata e inadatta.

La carrozzina, che tu sia disabile temporaneo o permanente, può salvarti la vita. Non nel senso che se non ce l’hai muori. Nel senso che se non ce l’hai non vai alla festa di compleanno della tua eroica amica che te l’ha portata attraverso la tempesta, non puoi pensare di uscire per comprarle un regalo, non puoi andarti a comprare la pillola anticoncezionale, non puoi andare da nessuna cazzo di parte. Perché trascinarsi sulle braccia, cari e care, non è solo faticoso ma a volte è impossibile. Un po’ come è impossibile andare a piedi da Roma a Firenze.

E anche la carrozzina, che oggi mi sembra la mia finestra per il mondo, è un oggetto limitato e limitante. Perché da sola non ci puoi uscire, perché i marciapiedi hanno i gradini, l’ingresso di casa tua ha dei gradini, perché ci sono discese e salite ripide. E perché la carrozzina, comunque la muovi con le mani. È ingombrante. Vaffanculo a chi usa il bagno per i disabili quando può usare quello per gli uomini o le donne. Che tu quando sei su una carrozzina smetti di esserlo, uomo o donna, e il mondo inizia a considerarti o come una specie da proteggere o come una specie da ignorare. E allora, non facciamo i bagni un po’ più grandi, facciamone uno solo per loro.

Chi, se non costretto a farlo, penserebbe mai di provare a vivere una situazione come quella di dover portare le stampelle o sedere su una carrozzina per mesi o per sempre? E allora vorrei dirvi che oltre alle cose impossibili che anche una persona abile può fare, ce ne sono mille altre che diventano impossibili a cui non penseresti mai se non in questa condizione. E nel mentre devi anche non vergognarti di chiedere aiuto o non avere paura di sembrare esagerato.

Ehi Lu scusa, mi potresti portare quella bottiglia d’acqua per favore?

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