di Lorenzo Orsi

Riflessioni su disabilità e sessualità a partire da Fiori a rovescio.

A quel luogo che Proust torna a occupare, lentamente e con timore, a ogni suo risveglio, non posso più sfuggire, non appena avrò aperto gli occhi. Non che a causa sua io rimanga inchiodato al mio posto – perché dopo tutto posso non soltanto muovermi e agitarmi, ma anche agitarlo, muoverlo, cambiarlo di posto – solo che, ecco, non posso cambiare luogo senza di lui, non posso lasciarlo là dov’è, e andarmene, io, altrove. Posso pure andarmene in capo al mondo, nascondermi sotto le coperte la mattina, farmi il più piccolo possibile, posso pure liquefarmi al sole su una spiaggia, lui sarà sempre là dove sono io. É irrimediabilmente qui, mai altrove. Il mio corpo è il contrario di un’utopia, è ciò che non sarà mai sotto un altro cielo, è il luogo assoluto, il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente “faccio corpo”.

Il mio corpo, spietata topia. (Michel Foucault. Conferenza radiofonica 1966). Quante volte abbiamo desiderato di sfuggire dal corpo, di volare con la mente, di liberare la nostra anima. Si tratta di una sensazione estremamente familiare laddove si abbia a che fare con un corpo malato. Durante sedute di chemioterapia oppure in momenti di grande dolore. Rimanere ancorati a terra pesanti, presenti e immobili sembra rappresentare la più terribile delle condanne.

Quando si tratta la vita e le esperienze di persone con disabilità fisiche questo tipo di associazione risulta ancora più immediata.

Nel romanzo di Stefano Tofani Fiori al rovescio vengono raccontate le vicende di una famiglia italiana dagli anni ottanta ai giorni nostri con sullo sfondo gli avvenimenti principali degli ultimi trenta anni dai funerali di Berlinguer al cucchiaio promesso e non mantenuto di Pellè contro la Germania ai campionati di calcio europei del 2016. Ciò che complica e infittisce le trame di una famiglia italiana qualunque è la presenza di un corpo

imprevisto, quello di Enrico, ragazzo tetraplegico costretto vita natural durante su una carrozzina e bisognoso di qualsiasi tipo di sostegno. Durante tutto il romanzo ci si chiede, come sempre accade nella vita, se esista una felicità possibile. Ogni personaggio della famiglia Toccafondi attraversa delle linee narrative in cui non è del tutto possibile stabilire se i percorsi di maturazione o di redenzione siano del tutto compiuti, eccezion fatta per Enrico che contro ogni aspettativa sperimenta momenti di inalienabile felicità.

Poi in una mattina di Aprile scintillante, con l’acqua della piccola piscina trafitta da infinite esplosioni di luce, successe una cosa che disintegrò le sue difese ferree: sentì la gioia di Enrico, mentre lo sorreggeva brividi di piacere che lui riuscì a trasferirle con lo sguardo e con il corpo, aperto in un sorriso che diceva: “grazie mamma…” (pag.24).

Il contatto con l’acqua, le carezze della madre sono momenti di gioia pura, ce ne saranno almeno altri due per Enrico: uno da preadolescente preso sulle spalle da un amico incosciente che gli farà fare, sotto gli occhi del padre complice, una discesa nella neve a folle velocità. E poi, da adulto, quando, finalmente, potrà provare le gioie del sesso grazie ad Adele, un’assistente sessuale che avrà un ruolo straordinario nell’emancipazione affettiva di Enrico. Qual è il filo conduttore che lega questi tre momenti di pura gioia? Si può riconoscere un tratto comune ovvero la scoperta potentissima di avere un corpo. Quella pesante zavorra che ci tiene inchiodati alla dittatura della gravità diviene, all’improvviso e sorprendentemente, uno strumento di piacere.

Fiori al rovescio e la vicenda di Enrico, in particolare, possono essere uno strumento molto utile per riflettere su nessi impliciti ed espliciti che rendono la disabilità un fardello così pesante da portare e a volte difficile da comunicare. Il primo nodo su cui vale la pena riflettere è il nesso, tanto caro alla lega di Salvini, famiglia – disabilità. La destra contemporanea ha costruito il suo consenso contro ogni tipo di marginalità che divergesse dal maschio bianco eterosessuale. Donne, neri, omosessuali, drogati, sono tutte figure da stigmatizzare, perché mai le persone con disabilità no? Perché è l’unica condizione tra queste che si trova in una posizione di marginalità senza “essersela andata a cercare”. Ogni minoranza, da mettere in un angolo, viene sempre raccontata come colpevole per un mancato adeguamento al processo di integrazione in un mondo immaginato come privo di contraddizioni di razza, genere e classe. Questo dispositivo di violenza e di potere non è applicabile alla disabilità, condizione che per definizione capita in sorte.

Tuttavia, ciò che accade in questo schema non ha nulla a che fare con un’esperienza di vita soddisfacente. In questa distopia presente la condizione della disabilità è tutta demandata all’arroccamento nei confini della famiglia. E il lavoro di cura è, per lo più, demandato alle donne che come spine dorsali della “nazione in armi” devono aver cura dei meno fortunati.

Ancora una volta Stefano Tofani suggerisce una soluzione. Dopo la prematura dipartita di Ugo e Luciana, padre e madre della famiglia Toccafondi, i due fratelli si organizzano in un tipo di famiglia non tradizionale in cui le relazioni affettive non sono legate al sangue, ma a una dimensione di condivisione di esperienze fondate su relazioni oblique. Si ritroveranno a vivere con un amico, con Adele, con la migliore amica di lei e aspetteranno tutti insieme il figlio di Adele, il cui padre rimarrà conosciuto ma disinteressato. Il destino dei/delle figli/e disabili quando i genitori muoiono rimane una gigantesca spada di Damocle se non riusciamo a sbrogliare la matassa che lega la disabilità alla famiglia tradizionale. Per tentare di sciogliere questo nodo dobbiamo, tuttavia, averne presente anche un altro, quello che lega la disabilità ad un destino più grande di se stessa. Convivono, infatti, nella storia della cultura, due rappresentazioni che escludono, in entrambi i casi, il corpo: la prima sminuente e infantilizzante che rappresenta la disabilità come condizione di infanzia o anzianità perpetua e che quindi esclude una dimensione pulsionale che è legata ai vari momenti della vita adulta. Ce n’è un’altra decisamente più lusinghiera, talvolta troppo lusinghiera, che identifica il disabile come figura destinata ad un’esperienza trascendente tutto testa e niente corpo, una figura al di là del bene e del male destinata a salvare l’umanità intera. 

Nella più grande saga letteraria e televisiva contemporanea Il Trono di Spade, Brandon Stark soprannominato lo spezzato, divenuto tetraplegico dopo una caduta indotta, sarà colui che diventerà re perché in possesso di determinate caratteristiche: la capacità di detenere in sé tutta la storia del mondo e la caratteristica, legata alla sua disabilità di non avere figli e quindi di non essere corruttibile dalle passioni umane e dunque avere ciò che tiene unite le persone, una grande biografia alle spalle e un grande futuro da raccontare.

Condannare le persone con disabilità ad una dissociazione così radicale rispetto al problema “del farsi corpo” ci porta al punto centrale della nostra riflessione. La sessualità e la affettività di una persona disabile non possono essere risolte eludendo il problema o cercando di affrontarlo con atti di volontà solidaristica o demandando “alla Repubblica” come se il diritto all’amore o al sesso fosse qualcosa di affrontabile con un’operazione legislativa. Abbiamo, infatti, bisogno di impostare un ragionamento collettivo. Il capitalismo contemporaneo necessita, per produrre valore, di estrarre profitto dalle nostre relazioni molto più che da elementi materiali, per fare ciò ha bisogno di cervelli sempre più connessi e di corpi sempre più soli. Infatti, tanto più rimaniamo attaccati ai nostri device tanto più diventa difficile provare il piacere di avere un corpo. Ciò che vogliamo suggerire è di rileggere la disabilità né come condanna né come destino di salvezza, ma come sintomo, ovvero come condizione più intensa di un problema essenzialmente collettivo.

La difficoltà strutturale di incorporarsi e quindi di scoprire la possibilità di un piacere senza motivo; perché è nei piaceri della carne che scopriamo i nostri tratti comuni. Perché quando godiamo assomigliamo molto di più a una lucertola al sole di quanto a volte siamo in grado di accettare. Siamo infatti abituati a pensare una vita degna di essere vissuta quella che ci aiuti a oltrepassare il piano della mera esistenza, abbiamo il terrore del piacere perché ci risulta inaccettabile che il solo fatto di esistere possa procurarci tutto quello di cui abbiamo bisogno.

Abbiamo l’impressione che l’esistenza vada elevata, giustificata e che il corpo debba trascendere nello spirito. Ecco, dunque, affiorare da questa riflessione affinità e differenze dei corpi sani e dei corpi malati i cui destini sembrano uniti da una comune mortificazione del corpo e del piacere a favore dello spirito e del desiderio. L’intensità di questa congiura contro i corpi per le persone con disabilità è indubbiamente maggiore, tuttavia, ciò che può rompere questo incantesimo è un’alleanza dei corpi, che ritrovino la propria essenza comune, il supremo piacere di esistere.

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